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MALDINDIA

Perché non puoi più farne a meno

Di

Pierpaolo Di Nardo

Prima edizione ebook: 2016

Copyright ©2016 Polaris

ISBN 9788860591791

La guida è disponibile anche in formato cartaceo

Casa Editrice Polaris

www.polariseditore.it

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Sommario

L’Atlante

Maldindia

Il viaggio

Tornare in India

È solo acqua!

Varanasi: Madre Ganga

Induismo: cuore e tabla

La macchina del tempo

La voce dell’India

Pushkar: il rito dell’appartenenza

Madurai: Meenakshi occhi di pesce

Perle di saggezza di Director Devin

Un salto nel Medioevo: lezione di Ayurveda

Ladakh: una ciotola di tzampa

Hinglish, nuova lingua del pianeta futuro

Con e contro

Il Karma di nascere a Orbassano

L’elefante

Calcutta la domenica...

Kaligath: una ressa che sembra una rissa

Palika Bazar: just have a look sir!

Appena fuori Delhi

Il tempio Sikh di New Delhi

Kalbadevi, l’India più dell’India

Dharavi: la città di sotto

Shambarik Kharolika

Mumbai: un’avventura chiamata Cinema

Spazio all’Ambassador Car

Cine(ma)città: un posto che non c’è

Marina Beach: per non sentirsi mai soli

I piedi zingari

In treno verso Ooty

La notte di Shiva a Chidambaram

Gujarat: nove giorni con i Rabari

Jodhpur: un calzolaio nel blu

Rajasthan senza tempo

Ladakh: a un passo dal cielo

Backwaters: paradiso d’acqua in terra

Kerala: pescatori di Vizhinjam

L’India che verrà

Ho girato l’India per anni e chilometri...

REAL INDIA

L’Atlante

-  Il mio primo viaggio?

-  Avevo 5 anni. Giuro! 5 anni.

-  E allora? - tu dirai - Che c’è di strano? Io a 5 anni sono andato a Palermo in aereo con i miei.

- Sì, bravo! A Palermo. In aereo. Io, il mio primo viaggio, a 5 anni, l’ho fatto da solo. Da solo e su un

cammello! Il cammello era piccolo, marrone e di plastica: quello del presepe.

L’attraversata... sul mio Atlante Geografico DeAgostini. Un’attraversata senza confini.

Televisione: poca. Videogiochi: niente. No Iphone world. No Ipad world.

Da bambino io giocavo poco con i soldatini. E poco con le macchinine.

A volte un po’ a pallone ma... solo quando non ero impegnato a viaggiare.

Il mio migliore amico era l’Atlante. e poiché a 5 anni avevo imparato a leggere, mi soffermavo sulle pagine dell’Atlante, con il mio cammello di plastica, Ascoli, a sottolineare i nomi dei Paesi più lontani. Mesopotamia! Mesopotamia mi faceva sempre un po’ paura. Sembrava un animale gigantesco: Mesopotamia, arriva Mesopotamia... Babilonia! Babilonia era il nome della donna cannone.

Iran, Afghanistan, Uzbekistan, Pakistan... India! India era una donna: bellissima.

E poi Nepal, Tibet, Cina, Mongolia, Urss, Strettodibering tutto attaccato come un ponte per passare di là in Alaska.

Avevo una casetta piccolina in Canadà, con vasche pesciolini tanti fiori di lillà. E tutte le ragazze che passavano di là dicevano... Messico, Guatemala, Perù, Cusco, Machu Pichu. Brasil...

Seguivo con il dito le strade disegnate sull’Atlante. Tracciavo rotte possibili e impossibili.

Incontravo Re e Regine, andavo a pranzo con Marco Polo, scambiavo monete con Tamerlano: insomma io, a 5 anni, facevo affari d’oro!

Poi arrivato laggiù in Argentina, nella Terra del Fuoco, tra i pinguini (ma non quelli del presepe), caricavo Ascoli su una barchetta di carta, e via, facevo rotta verso... l’Africa.

-  “Capitanooo!”.

-  “Cosa c’è?”.

-  “Vento forza sette: onde alte dieci metri”.

-  “Tutti sotto coperta”.

-  “Capitanoooooo!”.

-  “Cos’altro c’è?”.

- “Imbarchiamo acqua da tutte le parti!”.

-  “Certo, cretino, è una barca di carta!”.

Così io e Ascoli, cammello femmina e quindi incapace di morire, arrivavamo inzuppati fradici sulle coste dell’Africa. Si perché l’Atlante finiva davvero nella vasca da bagno!

E da lì era il Senegal, la Sierra Leone e poi su risalendo il grande fiume Niger verso Timbuctu in Mali. Una strada dritta dritta ci portava nel cuore del grande Deserto del Sahara e poi laggiù, laggiù in fondo: il Mediterraneo. Leptis Magna era un’arena piena di leoni, lottavo come un gladiatore per arrivare per primo in Egitto. Poi Gerusalemme e dopo un bagno nel Mar Morto, mare magico dove si sta a galla a leggere il giornale, avvistavo finalmente i minareti di Istanbul, conficcati nel cielo, con un piede in Asia e l’altro in Europa.

Grecia: Sirtaki, Tzatziki, Demòcratos. Jugoslavia: la musica in sette ottavi, Trieste con i palazzi affacciati sul mare e poi finalmente: casa!

Ascoli fermo, al semaforo, mia mamma che mi saluta, mio padre sulla porta che dice:

“Mannaggia a te, dove sei stato tutto sto tempo che il piatto è freddo?”.

- Già, mannaggia a me. Spesso mi ci addormentavo sopra all’Atlante, o meglio, dentro.

In geografia però prendevo sempre 9: al massimo.

Maldindia

“Chiunque sia stato in India non solo con gli occhi,

come un viaggiatore di lusso, ma con tutta l’anima,

proverà sempre nostalgia per quella terra

che al minimo cenno continuerà a tornargli in mente”.

(Hermann Hesse)

Con quale modesto alfabeto posso raccontare cos’è la mia nostalgia per l’India? Quella che provo tutti i giorni, tutte le mattine quando mi alzo. È difficile dare voce a qualcosa che si muove dentro, nello stomaco, in profondità.

Avventurosi esploratori del deserto del Sahara, Piccoli Principi a caccia di amici, viaggiatori leggendari in cerca di popoli mitici, da sempre ci raccontano il Maldafrica.

Ma esiste un altro male, anche questo buono, buonissimo. Un male buono che ti entra dentro all’anima e non ti lascia più. Si chiama Maldindia.

Il Maldindia è lì all’aeroporto appena ci arrivi, in India, tra le case di Delhi o di Mumbai. Non lo vedi ma c’è. Il Maldindia è nell’aria prepotente, solida, monsonica. Quell’aria che appena si apre il portellone dell’aereo... ti salta addosso e quasi ti stordisce: aria unica e inimitabile dell’India.

Il Maldindia lo senti soprattutto alla sera, nei villaggi, quando in fondo alla valle si accendono piccole luce: e sono candele, fuochi, piccoli fuochi attorno ai quali famiglie intere a più generazioni mangiano quello che hanno raccolto durante il giorno nei campi.

Il Maldindia è per la strada, le mille strade dell’India, e lo vedi negli occhi lucidi della gente che ti guarda e ti trova buffo, perché sei vestito da marziano, col tuo cappello da turista e la macchina fotografica sempre pronta e piena di click! Il Maldindia c’è e ti cammina dentro.

Ma come posso dire? Il Maldindia è quella sensazione che ti spinge a non voler mai tornare a casa quando sei lì, in India, e ti fa venire subito voglia di ripartire, per l’India, appena torni a casa.

Per me l’India è stata l’occasione per cambiarmi la vita. Un’occasione per costruire ponti, per mettermi in contatto con parti remote di me che non sapevo neppure di avere.

Ferdinand de Lanoye dice: “Ci sono mille porte per entrare in India ma nemmeno una per uscirne”.

È così: proprio così. Fortemente così. Terribilmente così. Ma anche... piacevolmente così.

Il viaggio

“L’India è laggiù ad oriente, non si vede ma c’è.

Anche tu dovresti sentirla, come si sente la presenza

di qualcuno che non si vede eppure c’è”.

(Alberto Moravia)

Non si viaggia in India per visitare monumenti, musei, templi o palazzi. Non si viaggia in India per attraversare paesaggi. Almeno non soltanto. In India si viaggia per conoscere mondi interiori: nelle paludi della mente, nei labirinti senza bussola che ci portiamo dentro. Si viaggia in India per fare un viaggio che non si vede con gli occhi ma si sente con lo stomaco e il cuore. Perché l’India non si vede: l’India si sente.

Ma cos’è il viaggio? Il viaggio è un linguaggio universale che non s’impara sui libri. Non esiste un manuale per imparare a viaggiare. Il viaggio è un modo per capire il mondo. E quello che devi fare è andare, mettere un passo davanti all’altro, un passo dietro l’altro: andare dietro andare, spostare l’orizzonte sempre un po’ più in là, sempre un po’ più avanti. Viaggiamo per cercare altrove quello che ci manca nel posto in cui viviamo. E ogni volta che viaggiamo non facciamo altro che ridisegnare i nostri confini. Quei confini che restando a casa, in poltrona, non sappiamo neanche di avere. Viaggiamo per sedare le nostre inquietudini. E non è altro che mettersi in gioco, dentro a mondi non protetti da una casa o da un amore.

Il viaggio è un modo di essere, di vedere, di sentire. Viaggiare è mettersi in discussione, a disposizione del mondo. Accettare di svincolarsi da tutto; accettare di dormire in un letto scomodo, di mangiare cose che non avresti mai pensato di mangiare, di non comunicare che a gesti... Viaggiare è necessario, inevitabile. Viaggiare è inseguire bocconi di libertà.

E poi un viaggio, una volta che l’hai fatto, ce l’hai sempre addosso, sta sempre con te. Non è come una macchina nuova che dopo sei mesi diventa vecchia e vorresti già comprarne un’altra. Non è come una giacca, che poi ingrassi. Il viaggio una volta che l’hai fatto l’hai fatto per sempre. Te lo porti appresso tutti i giorni... e ti serve tutti i giorni.

Il viaggio è una medicina naturale per farsi bene. Per volersi bene e per voler bene agli altri. Il viaggio è un alfabeto per raccontare come siamo: A come Autostop, come Aereo. B come Barca, come Bar dove ti ho incontrato. C come Coast to Coast.

Il viaggio è battito veloce del cuore. Un modo per avvicinarsi agli altri, certo, ma poi essenzialmente... per avvicinarsi a se stessi.

Abbiamo esplorato tutto: le foreste più impenetrabili, i deserti più nascosti che sfuggono alle carte geografiche, i ghiacciai più imprendibili, le montagne più irraggiungibili. Abbiamo fotografato tutto, visto tutto, ingurgitato tutto, arraffato tutto. Il solo viaggio che ci resta da fare è un viaggio dentro di noi. E l’India è li per questo: perché viaggiare in India è darsi l’occasione, almeno una volta nella vita, per cambiarsi la vita!

Tornare in India

In viaggio. Di nuovo in viaggio. Ho riempito la valigia di poche cose. Un libro importante, una Moleskine per gli appunti, una coperta di Linus. Poca biancheria. Un kurta pijiama di cotone bianco mi aspetta in uno dei mercati di Delhi. So che mi vestirò all’indiana fin dal primo giorno.

Nel cielo silenzioso e immobile della nuova Germania, un sole rosso si accende a Oriente.

Il motore del Boeing 747 romba veloce sulla pista e mi incolla alla sedia. Le ruote si staccano da terra e sento una piacevole sensazione di leggerezza: il cordone ombelicale si spezza e mi libera nel cielo, verso il cuore del mondo.

Asia, piccolo nome di donna tutto al femminile. Culla di religioni millenarie.

Asia, donna seducente che conquista e confonde, come un ottimo vino.

Sopra le nuvole che saltano le frontiere, vado in bilico tra la vita e la non-vita.

Cielo, terra di mezzo, dimora degli dèi dove tutto è transitorio, dove non si abita, dove si è fragilmente aggrappati al volere di un uomo, uno soltanto: quello che guida l’aereo.

Là sotto, vedo i minareti di Istanbul. Tra poco verranno Baghdad, Samarcanda e Kabul.

Sarà la volta di Lahore, infine Delhi... dove sentirsi a casa.

Tornare in India. Ancora una volta dopo tante volte. Come se l’India fosse qualcosa che si può lasciare. L’essere stato via è come aver vissuto in un tempo sospeso, un tempo-non tempo: perché una volta che hai l’India dentro non puoi più farne a meno.

Poi, dietro a un presepe infinito di piccole luci, Delhi appare. L’aereo si abbassa ed entra nella solida, calda, umida, monsonica afa indiana. La tensione d’essere sospesi svanisce, la sensazione delle ruote del Boeing 747 che toccano terra, in un dolce tentativo di carezza, è liberatoria: siamo in India! Una campana suona. Lascio le scarpe fuori, entro in punta di piedi nella terra degli dèi.

Il viaggio è l’unico modo che conosco per conquistare equilibri, per rimanere fermo... dentro. Tornare in India è un modo per parlare sottovoce con me stesso. Torno in India per nutrirmi della sua diversità, perché è attraverso la diversità che imparo a stare al mondo.

È solo acqua!

C’è il sole, oggi c’è il sole, il sole umido indiano. Sono per strada e vado senza meta.

Compero una foglia di betel arrotolata con le spezie, giusto per masticare il caldo e per provare a scacciarlo via.

Improvvisamente il vento spazza via la luce: è come se avessero spento il sole!

Una mandria di nuvole in fila indiana si fa largo. Tutto si fa scuro. Tutto si fa grigio.

Nero. Nero nero nero! Nel giro di pochi secondi piovono gocce d’acqua grandi come angurie: lacrime di Shiva e Vishnu: è scoppiato il monsone!

Quattro bambini seminudi su una bicicletta mignon giocano con l’acqua, mentre la strada si allaga velocemente. Mi inseguono divertiti e mi spruzzano l’acqua addosso.

Io sorrido ai bambini sulla bicicletta mignon e compro un ombrello dal primo indiano che passa. E sorrido al monsone che battezza la terra e la feconda.

Gli indiani, tutti insieme, tirano un sospiro di sollievo e spostano le nuvole. Il monsone spalanca i polmoni e gonfia le pance di riso e lenticchie. Un popolo che venera i fiumi e che nell’atto estremo della morte restituisce la vita all’acqua, è un popolo che non può avere paura dell’acqua.

Ora che il cielo accarezza la terra col suo dolce solletichìo, dopo giorni di 45 gradi all’ombra, gli indiani sono più felici: sorridono e si lasciano bagnare.

Sorridono i bambini; sorridono i passanti, sorridono le statue del tempio; sorridono i bufali, i maiali, le vacche sacre. E adesso sorrido anch’io, anzi io rido rido rido... forse perché sono l’unico in questa città di due milioni di abitanti con un ombrello in mano!

Sono fradicio dalla testa ai piedi. Chiudo l’ombrello e lo butto via.

Salto in una pozzanghera! Cammino anch’io come un indiano tra gli indiani.

Nel monsone, che è solo acqua! È solo acqua!